Il termine autopsia psicologica fu utilizzato per la prima volta in maniera più scientifica nel 1992, su 93 suicidi avvenuti nell’arco di sei anni nel Corpo di Polizia di New York. L’autopsia psicologica nasce infatti quale strumento specialistico finalizzato fondamentalmente, in caso di suicidio o sospetto di suicidio, a rispondere a queste tre domande:
1) perché l’ha fatto?
2) come è morto/a e perché proprio in quel particolare luogo/momento?
3) in caso di morte ambigua, è probabile che si sia trattato di suicidio?
Dunque, è finalizzata alla comprensione della mente del deceduto prima dell’evento morte. L’obiettivo prioritario è offrire ai sopravviventi – principalmente i parenti della vittima – una risposta al “perché l’ha fatto”. Domanda che spesso a lungo termine, se non risolta, rimane un vero e proprio tarlo psicologico di difficile elaborazione. E questo comporta l’attivazione e cronicizzazione di sensi di colpa, vergogna, rabbia, depressione, finanche il comportare una sorta di “famigliarità” al suicidio (la presenza di un suicidio in famiglia è infatti considerato un elemento di rischio).
Come viene condotta l’autopsia psicologica?
Per svolgere correttamente tale delicato lavoro è necessario acquisire il più possibile informazioni circa:
- i dettagli della morte e della storia famigliare della vittima, della sua personalità, dei suoi meccanismi di reazione ad eventi stressanti
- la presenza di eventuali precedenti eventi traumatici (eventuali incidenti puramente casuali potrebbero in verità nascondere pregressi mancati suicidi non correttamente interpretati);
- recenti cambiamenti improvvisi;
- l’uso di sostanze psicoattive o la presenza di eventuali patologie psichiatriche conosciute o soggiaciute;
- la natura delle relazioni interpersonali della vittima e del suo mondo interiore;
- la reale intenzionalità suicidaria (spesso infatti molti suicidi sono solo atti dimostrativi purtroppo finiti male);
- l’eventuale presenza di una vita parallela (amanti, abitudini occulte, etc.);
- il contesto lavorativo (mobbing, demansionamento, licenziamento, pensionamento) ed economico (debiti, perdite recenti, investimenti sbagliati);
- la presenza di eventuali malattie fisiche a prognosi infausta o invalidante;
- chi poteva essere più o meno consapevolmente il destinatario del gesto dimostrativo o suicidario vero e proprio (rivendicazione, punizione, etc.).
Gli strumenti utilizzati sono in primis l’intervista alle persone vicine alla vittima (esiste a tal proposito uno schema di intervista strutturata estremamente dettagliata – il MAPI), l’analisi di eventuali documenti personali (lettere, diari, appunti, disegni), il sopralluogo dei luoghi in cui il soggetto viveva o che frequentava, l’eventuale analisi dei rapporti di polizia e del referto dell’autopsia. Ovviamente massima deve essere la collaborazione da parte delle persone interessate ed ovviamente solo previo il loro consenso. Va assolutamente rispettato, senza alcuna valenza giudicante, un eventuale rifiuto – seppur raro in questi casi – così come va rispettato il contesto culturale, sociale, religioso, etnico di appartenenza.
È stimato che il tempo più opportuno per poter condurre una efficace autopsia psicologica sia da 1 a 6 mesi. Tale tempistica rispecchia la necessità di rispettare il dolore dei sopravviventi e di evitare l’eccessivo immediato coinvolgimento emotivo, con inevitabile attivazione di meccanismi difensivi dall’angoscia (quali la negazione, la razionalizzazione, il distanziamento emotivo, la proiezione della colpa, l’auto-colpevolizzazione). Questo, però, senza nel contempo poter attendere un eccessivo lasso di tempo, pena il rischio di strutturazione dei meccanismi psicologici difensivi o una perdita di informazioni importanti.
Chi conduce l’autopsia psicologica?
Bene è inoltre sottolineare che l’autopsia psicologica non è e non deve essere una operazione investigativa in quanto il suo scopo primario non è quello di individuare un colpevole, ma quello di ricostruire il più possibile lo status mentale del suicida prima del tragico evento ed offrire ai sopravviventi una risposta a quel tragico “perché”. La finalità è quindi prettamente psicologica e di aiuto ai sopravviventi rispetto all’elaborazione del lutto, così estremamente difficile in tutti i casi di suicidio (specialmente nei devastanti casi di suicidio di adolescenti o bambini). Per tale motivo, chi la conduce deve possedere in primis alte e specialistiche competenze psicologiche/psichiatriche associate ad una forte dose di empatia e sensibilità umana. Sono comunque necessarie anche competenze in ambito forense ed una certa sensibilità investigativa, in quanto non è da escludersi una secondaria finalità medico-legale (ad esempio per questioni assicurative o, in casi estremi, penali).
Baroncini Investigazioni: scopri la nostra Divisione di Psicologia Investigativa
L’articolo è stato scritto dal dott. Paolo Baroncini – medico psichiatra, psicologo, psicoterapeuta con pluridecennale esperienza nella tutela ai minori, nel trattamento delle dipendenze patologiche, nella psichiatria e psicologia forense, esperto in scienze forensi e criminologiche – nonché responsabile della nostra Divisione di Psicologia e Psichiatria Forense.
La Divisione è nata all’interno del nostro Istituto investigativo con l’intento di poter aiutare il cliente che, attraversando un periodo difficile della propria vita, necessita, oltre all’indagine investigativa, di un ulteriore supporto psicologico e morale.
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